Diretto dai registi Federico Cammarata e Filippo Foscarini, “Waking Hours” si inserisce tra le pellicole più interessanti della sezione Settimana Internazionale della Critica alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia. Nato con intenti naturalistici, il documentario si è evoluto in un racconto inedito sulla rotta balcanica, attraverso l’osservazione notturna e ravvicinata di un gruppo di trafficanti afghani nei boschi al confine tra Serbia e Ungheria: un esempio di come il cinema possa essere uno strumento di approfondimento sociale, capace di rivelare le sfumature di un mondo complesso e spesso invisibile.
Inizialmente, il progetto dei registi si basava su un’indagine naturalistica volta a filmare un insetto molto particolare, le effimere, creature che vivono soltanto per un breve lasso di tempo e che si riproducono in un rituale spettacolare al tramonto lungo il fiume Tibisco, al confine tra Serbia e Ungheria. Tuttavia, il caso ha voluto che i cineasti si imbattessero in un gruppo di persone che abitano i boschi circostanti: si trattava di un clan di migranti afgani, interaction che ha dato vita a un film che sorprende per il suo approccio diretto e umanistico.
Lo stile visivo di “Waking Hours” è caratterizzato da immagini molto oscure, con sporadici sprazzi di luce artificiale o naturale. Questa scelta non è soltanto estetica, ma rappresenta una necessità pragmatica dettata dalle condizioni di ripresa notturna, che si sono rivelate anche un’opportunità per raccontare storie intime e genuine. La presenza nel buio, infatti, ha favorito un’atmosfera intima, permettendo ai registi di catturare momenti autentici attorno al fuoco, dove i protagonisti condividono storie e tradizioni mentre le telecamere diventano un mezzo per ascoltare e comprendere.
Durante le riprese, i registi hanno avvertito una grande consapevolezza delle complessità legate al tema delle migrazioni e del ruolo dell’Europa. La loro presenza sul campo ha permesso di cogliere una realtà inedita, spesso trascurata dai media: quella di gruppi di migranti che si trovano in una sorta di zona d’ombra, molto distanti dalle narrazioni classiche di migranti come protagonisti di spostamenti verso l’Europa, ma piuttosto insediati in una condizione di attesa e permanenza nei confini balcanici. La loro attività, spesso clandestina e repressa, si contrappone alle aspettative europee, evidenziando come il confine diventi una barriera non solo geografica, ma anche sociale.
Il modo di lavorare dei registi si basa sulla scoperta attraverso il viaggio e l’ascolto. Partendo da un pretesto naturale, il progetto si è evoluto in un’analisi profonda delle dinamiche sociali e politiche che attraversano queste aree di frontiera. La volontà di rimanere autentici e di non interferire ha permesso di raccogliere un materiale crudo, che diventa un importante strumento di riflessione sul presente e sul futuro delle migrazioni in Europa.
Se da un lato “Waking Hours” si presenta come un’opera che unisce il documentarismo naturalistico a un’analisi politica, i registi sottolineano la possibilità di continuare su questa strada, lasciandosi guidare dal metodo della scoperta e dell’ascolto. Il film è nato proprio da questo approccio, e il progetto futuro potrebbe emergere in maniera spontanea, coinvolgendo nuove storie e tematiche connesse. La speranza è di poter continuare a usare il cinema come un mezzo potente per osservare e comprendere realtà spesso ignorate.
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